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Il salotto di Oikos

un angolo di letture

ARTICOLI DEL 2023

 

Dal consumo alle relazioni

 

(dicembre 2023)

 

Nel mondo della Psicologia è di moda pensare che ci sia un modo efficace di comunicare e di stare nella relazione, ma questa visione è figlia del capitalismo più sfrenato.

 

La loro tesi è che, attraverso delle procedure standard, l’interlocutore sicuramente capirà quello che l’altro vuole dire. Quasi sempre però quello che si vuole dire significa in modo più subdolo che l’interlocutore deve fare qualche cosa: comprare qualcosa, dire qualcosa, comportarsi in un determinato modo. In poche parole questa visione ha in sé il germe del dominio. Non ci può essere una comunicazione efficace senza una volontà di dominio dove, chi pretende di comunicare efficacemente, spiega all’altro come bisogna stare al mondo. La comunicazione efficace presuppone che ci sia una verità assoluta che l’altro debba fare propria; nel mondo della comunicazione efficace io spiego e tu fai. Non a caso è sempre usata da chi ha potere per influenzare chi non ne ha (o pensa di non averne).

 

Le procedure consentono di “spiegare” mentre le relazioni aiutano a “comprendere”. Karl Jaspers sosteneva che il "comprendere" va oltre la semplice conoscenza dei fatti, comprendere implica una partecipazione attiva e personale all'oggetto della conoscenza, una sorta di coinvolgimento esistenziale. Per comprendere dobbiamo fare ricorso a più dimensioni dell’essere umano: le emozioni, il corpo, la nostra fantasia; è quindi un processo più profondo che considera l’essere umano nella sua complessità e unicità e non semplicemente una macchina che deve fare delle cose usando solo la volontà.

 

La Relazione è un fenomeno complesso che mette in gioco tutto l’essere umano e non solo la sua capacità di “fare”. La relazione non è una performance.

 

Propongo tre parole che ci possono aiutare a definire meglio che cosa è importante in una Relazione.

 

VEDERE: vedere l’altro per quello che è e non per l’immagine di lui/lei che ho in testa. Spesso l’immagine dell’altro che ho in testa è un’immagine idealizzata, una proiezione dei miei bisogni o delle mie illusioni. Vedere l’altro mi porta a “fare esistere” l’altro sempre di più dentro di me e fargli spazio. Quando vedo non possiedo ne domino. Vedere vuole dire cedere; rinunciare all’esercizio del potere che è così difficile da mettere in discussione dentro di noi e nelle nostre relazioni quotidiane.

 

SENTIRE: sentire soprattutto che cosa è buono per me, quello che c’è nella relazione, quello che accade nel mio mondo interno e nello spazio del NOI. Sentire vuole dire sapere mettere confini, sapere qual è la distanza giusta, qual è il tempo del NO e quello del SI. Sentire vuole dire fare esistere soprattutto i corpi, dare dignità e valore alla grazia che questi esprimono e, quando questa grazia stenta a prendere forma, aiutare l’altro a prendere consapevolezza di questa assenza. Il sentire è il luogo più sacro che abbiamo ed è lì che bisogna muoversi con delicatezza, premura e cura.

 

CURA: questa parola così preziosa ridotta ad un ennesimo bisogno indotto del capitalismo. Tutto è consumo anche la cura, trasformata in un vorace “all you can eat”. Nel mondo del consumo c’è sempre qualcuno fuori di noi che si deve prendere cura di noi. La cura al contrario, è la capacità di costruire, radicare, coltivare il mio piacere nel mondo. La cura mi dice che il problema della vita è il piacere e non il consumo, l’accumulo, il dominio.

 

È urgente costruire relazioni che abbiano questo significato. In gioco, oltre alla sopravvivenza su questo pianeta, c’è il recupero del senso ontologico più profondo ed autentico.


Filippo Mondini

 

Rischio e creatività in adolescenza

 

(settembre 2023) 

 

Le seconde generazioni ci indicano la strada

 

Marie Rose Moro, una psicanalista transculturale francese ci propone una interessante riflessione sulle sfide legate alla crescita che si trovano ad affrontare i giovani adolescenti figli di famiglie immigrate (le così dette "seconde generazioni").

 

Spesso questi giovani crescono con riferimenti culturali plurimi, quelli del paese di origine dei genitori, quelli della società in cui nascono, e quelli che si costruiscono nel loro contesto di vita.

 

L'adolescenza, con i mutamenti fisiologici che porta con sé, necessita di attraversare le costruzioni identitarie delle figure genitoriali e familiari e entrarci in conflitto.

 

L'adolescente, interrogandosi sulla propria storia quindi, si interroga anche sul legame di filiazione con coloro che lo hanno generato.

 

Per l'adolescente figlio di migranti questo passaggio è più complesso in ragione della discontinuità del contenitore culturale che governa i legami di filiazione e affiliazione.

 

Prendono le distanze dalla immagine idealizzata dei genitori e rimodellano i loro "ideali dell'Io" con figure sostitutive che trovano nella società, nel gruppo, nella banda.

 

I figli di famiglie che hanno vissuto un processo migratorio possono a volte trovarsi davanti al rischio di non trovare nelle famiglie di origine un involucro culturale sufficientemente strutturato per potersi dare una mappa nella propria costruzione del mondo.

 

Questo difficilissimo processo è un "rito di iniziazione" vero e proprio che prevede una fase di totale indefinitezza, confusione, caos, smembramento, per poi lentamente ritrovare una integrazione possibile dopo avere attraversato il conflitto.

 

IL RISCHIO è quello di rimanere imbrigliati nella difficoltà di trovare riferimenti educativi, culturali, di costruzione di senso sufficientemente solidi e quindi di restare ìn un limbo di non senso che può portare a quella devianza e patologizzazione che è sotto gli occhi di tutti.

 

DIFENDERE L'INCONTRO

 

Questi giovani sono capaci di trovare un modo di essere e di fare NUOVO E CREATIVO, a condizione di costruire legami con tutti i mondi a cui appartengono, a condizione, si potrebbe dire, di essere riconosciuti nelle loro appartenenze multiple, e di essere "inscritti" nel contesto di riferimento, e non assimilati, o cancellati. Possono diventare ciò che sono a condizione di trovare degli adulti e una comunità educante che gli permetta di "essere", essere ponte, essere straniero, essere mediatore, essere diverso, essere identico, non essere...per poter costruire un metissage creativo e nuovo che trovi una società in grado di fargli spazio.

 

Lo spazio di un incontro, dove la complessità dei mondi che si portano dentro possa essere vista e riconosciuta, con rispetto, curiosità e solidità.

 

COSA HANNO DA DIRE LE SECONDE GENERAZIONI AI LORO COETANEI?

 

Questa sfida al metissage, questa continua ricerca di affiliazioni possibili che diano senso e struttura al loro "essere", questa necessità di appartenze multiple, non è forse quello che si trovano ad affrontare tutti i giovani adolescenti di questa società così liquida da aver perso contenitori stabili?

 

Entrare in relazione e difendere l'incontro con i giovani con background migratorio osservare il mondo con i loro occhi senza giudizio e con curiosità può aiutarci a ricostruire un contenitore sufficientemente buono per tutti gli adolescenti in cerca di senso.

 

Buon inizio scuola a tutti dunque, grandi e piccoli!

 

Barbara Mattioli

 

Dal pensare al sentire

 

(luglio 2023)

 

Il cambiamento più radicale che possiamo vivere è sicuramente il passaggio dal pensare al sentire.

 

Questo cambiamento è una vera e propria rivoluzione perché ci permette di toccare gli strati più profondi della nostra esistenza: la consapevolezza, l’autenticità e il piacere.

 

Sentire è l’esperienza più radicale dell’essere umano, fare l’esperienza del sentire vuole dire fare l’esperienza di ciò che è vero in noi.

 

I pensieri sono spesso fuorvianti, ci portano via da ciò che è davvero importante per noi. Vivere solo con il pensiero ci dà l’illusione di vivere in pienezza ma nella pratica ci nega la possibilità dell’integrazione mente corpo che è fondamentale per la felicità.

 

Che cosa dobbiamo sentire?

 

Prima di tutto il CORPO. Il nostro corpo si struttura come difesa e risposta all’ambiente. Le tensioni croniche, le rigidità, le zone morte e le zone che sentiamo di più, sono tutti elementi fondamentali per aumentare la nostra consapevolezza. Non ci può essere un cammino di crescita senza un lavoro sul corpo. Nel corpo possiamo sentire la vita che ci attraversa e l’energia che ci dà gioia. Il capitalismo, la commercializzazione dei bisogni, i social media, spingono in direzione contraria: “Non fermarti a sentire ma recita la tua performance”. Fermarsi a sentire la stanchezza diventa un atto rivoluzionario!

 

Nel nostro corpo sentiamo le EMOZIONI. Spesso pensiamo alle emozioni invece che sentirle nella nostra gola, nella pancia, nel torace o nelle mani. Un’emozione esiste se la sentiamo se sappiamo, anche grossolanamente, descriverla come sensazione corporea. Ci è di molto aiuto distinguere tra quello che è un pensiero e quella che è un’emozione.

 

Infine sentire vuole dire SENTIRE IL MONDO: il calore o il freddo che ci dà contatto con gli altri, il partecipare alle sorti del mondo, sentire la connessione con la Terra, la natura, gli animali e le piante. Nulla nel mondo del sentire ci è estraneo.

 

Passare dal pensare al sentire implica fare i conti davvero con ciò che mi dà piacere nella vita e ciò che invece mi fa male. Questa consapevolezza mi permette di potare i rami dolorosi, di mollare qualche peso inutile che mi sto portando, mettere distanza da quelle relazioni tossiche mi ammalano, imparare a dire NO. È importante iniziare a distinguere nella mia vita, tra ciò che è dovere e ciò che è piacere e quanto spazio c’è per godere di tutte le cose che mi piacciono. Per rispondere al dovere rischiamo di barattare il bello e il piacere con la comodità. Spesso ciò che è comodo e a portata di mano ci porta lontano dal nostro cuore e dal piacere.

 

Per entrare nel mondo del SENTIRE non dobbiamo fare nulla. Non è una performance da realizzare, tantomeno un obiettivo da raggiungere o una sfida da vincere. Per sentire dobbiamo cedere, mollare, allentare, fidarci, perdere la testa. Perché alla fine sentire vuole dire essere capaci di amare.

 

Lowen afferma che “essere liberi dagli impedimenti fisici imposti dalle spasticità croniche, liberarsi dalle catene delle paure inconsce: questo e questo soltanto, renderà l’uomo capace di quell’amore in cui i suoi più profondi sentimenti si esprimono con la massima aggressività”

 

Filippo Mondini  

 

Dalla famiglia all’individuo tra obbedienza e desiderio

 

(maggio 2023)

 

Nel mese di maggio all'interno dello spazio di Oikos "Conversazioni" continueremo a riflettere sulla percezione di sé e della propria individualità all'interno dei nostri sistemi di appartenenza.

 


Nel primo incontro abbiamo provato a rispondere a questa domanda:
quali sono gli aspetti della mia individualità che desidero curare all'interno della mia relazione di coppia? Quali sono i miei personali spazi vitali?

Mercoledì 24 allargheremo la stessa domanda alla famiglia.

In particolare ci focalizzeremo sulle relazioni con la famiglia di origine e proveremo a chiederci attraverso il concetto di lealtà e obbligo quale è lo "stile di obbedienza" che ci caratterizza, quali sono i fili invisibili che ci legano alla famiglia di origine che "governano" le nostre azioni e in che misura le governano.

Siamo proiettati tutta la vita verso la necessità di differenziarci. Prima dalle nostre relazioni primarie. Tra i sei e i nove mesi iniziamo a sviluppare la "percezione di sé" e la prima differenziazione dopo la iniziale simbiosi materna. Dai nove mesi in poi, le relazioni saranno un continuo gioco di vicinanza e distanza.
Una danza necessaria per comprendere e sviluppare il senso del Sè.
I fili invisibili che ci legano alle nostre peculiari lealtà familiari si strutturano così molto presto e diventano una ragnatela di significati sui quali ci muoviamo e agiamo e che ci condizionano più o meno consapevolmente.

Ma verso dove ci spinge il desiderio?
Come lo coltiviamo?
Nello spazio che intercorre tra le lealtà familiari e i nostri desideri cosa c'è?
Coerenza e assonanza? O conflitto e tensione? O entrambe?

Fermarci e rispondere a queste domande nel "qui ed ora" delle nostre vite è importante per ricordarci che dove andiamo, le scelte che facciamo, i desideri che coltiviamo, affondano le loro radici nelle storie familiari da cui cerchiamo ininterrottamente di emerge in maniera più o meno consapevole.

Il desiderio ci dice l'antropologo René Girard è un desiderio "mimetico", e quindi relazionale. Non è spontaneo ma è frutto di imitazione. Io desidero ciò che desidera l'altro. Il desiderio nasce quindi nella relazione ed è a partire da essa che si struttura dentro di noi.
Per liberare il desiderio è dunque necessario riconoscerne l'inter-dipendenza, che come ci ricorda Pannikar è circolare e paradossale.
Circolare perché agiamo all'interno di una rete di significati condivisi che si trasformano negli spazi della relazione.
Paradossale perché a partire dalla relazione e dal riconoscimento dell'inter-dipendenza, possiamo intraprendere il viaggio nella parte più profonda di noi stessi.
Conoscere il desiderio quindi, seguirlo, pensarlo, alimentarlo all'interno di una relazione ci conduce verso la trasformazione.

Barbara Mattioli

 

I pericoli di una storia unica

 

(marzo 2023)

 

"Ecco quindi come si crea una storia unica, mostrate un popolo come una cosa, come solo una cosa, più e più volte, ed è così che essi diventeranno questa cosa..."

 

"..le facevo già pena ancor prima che mi incontrasse. La sua posizione di partenza verso di me, come africana, era una specie di pietà condiscendente, e piena di buone intenzioni. La mia coinquilina aveva una storia unica dell'Africa. Una storia unica di catastrofi. In questa storia unica, non c'era alcuna possibilità che gli africani le somigliassero, in alcun modo. Nessuna possibilità di sentimenti più complessi della pietà. Nessuna possibilità di rapportarsi tra esseri umani di pari livello"

 

Discorso di Chimamanda Ngozi Adichie www.ted.com/talks

 

Giugno 2009

 

In questi giorni, mentre ci prepariamo ad accogliere la forza della nuova vita che la primavera inesorabilmente ci mostra, il mare continua a restituirci cadaveri di ogni età di persone morte nel tentativo di vivere o sopravvivere a destini avversi che cercavano nuove sponde possibili.

 

Siamo tutti coinvolti dentro una narrazione che cerca spiegazioni, giustificazioni e tentativi di allontanare lo sgomento e il senso di colpa.

 

La storia unica di cui ci parla la scrittrice nigeriana Chimamanda ci sussurra frasi consolatorie attraverso l'informazione: "non dovevano partire", "dobbiamo fermare gli scafisti", "dobbiamo aiutarli a casa loro".

 

Ma se questa stessa storia partisse dal restituire dei nomi alle donne, agli uomini e ai bambini che si sono imbarcati per raggiungere le nostre coste, e se riuscissimo a seguire il filo rosso che lega ognuno di quei nomi a delle storie individuali, a delle storie familiari, a delle storie sociali e a delle scelte politiche, a degli accordi tra stati, ad un contesto sociopolitico dove un destino scritto dai più potenti cerca con forza e determinazione di trasformarsi in progetto di vita, incominceremmo a sentirci tutti coinvolti e a chiederci nel nostro piccolo cosa avremmo fatto al loro posto e cosa possiamo fare oggi per permettere ad ogni essere umano sulla terra di provare a costruirsi un futuro degno di essere pienamente vissuto.

 

Se dalle spiagge di Cutro e da quei corpi senza nome, vittime di un destino apparentemente già scritto, ci spostiamo a riflettere sulle nostre vite non sarà difficile riconoscere quanto i ruoli che giochiamo nella vita, le posizioni che assumiamo nel nostro contesto familiare, le aspettative che ci cuciamo addosso a volte ci costringano ad una rappresentazione di noi stessi che prende in considerazione un solo finale possibile.

 

Il sociologi E.Goffman nel libro "La vita quotidiana come rappresentazione" ci ricorda che il tentativo di controllare le impressioni del nostro "pubblico" determina il tipo di rappresentazione di noi stessi che portiamo alla ribalta, ma se provassimo a raccontare la nostra storia da un altro punto di vista? Se provassimo a cercare un altro inizio? Se invece di partire da una idea di destino predeterminato, di un solco da seguire, ci immaginassimo di provare a scriverlo a partire da ciò che alimenta il nostro desiderio e le nostre passioni? Da ciò che ci fa sentire vivi?

 

Questo è l'augurio per questa primavera, con le parole di Chimamanda, un invito a respingere "la storia unica" della nostra vita.

 

Quando respingiamo la storia unica, quando ci rendiamo conto che non c'è mai una storia unica riguardo a nessun posto, riconquistiamo una sorta di paradiso.

 

E noi? Osiamo coltivare il nostro paradiso?

 


Barbara Mattioli

 

Ecco lì è la tua casa

 

(febbraio 2023) 

 

Quando ritorni al luogo dove eri umano, ecco li è la tua casa (Ko Un)
La psicoterapia è un ritorno a casa.

Nella nostra casa ci possiamo sentire sicuri, accolti, guardati. In casa stiamo con la nostra umanità,
possiamo permetterci di prenderci cura del bambino che esiste in noi.
Nella nostra casa diventiamo sempre più consapevoli che, per dirla con Judith Butler, tutte le vite hanno lo
stesso valore e che ogni vita conta. In questo cammino di consapevolezza proviamo a dare spazio e contrastare la voracità della nostra esistenza alimentata ogni giorno dal colonialismo psicologico,
antropologico e culturale che il capitalismo ci fa respirare come fosse una cosa normale.
Abitando la nostra umanità ci rendiamo conto che il motto di Tatcheriana memoria “there is no
alternative”, è una grande truffa, un trucco che il potere continua a giocare fuori e dentro le nostre vite.
Nella nostra umanità sono davvero pochi gli “ormai” che ci possiamo dire.
Suggerisco tre vie che possono aiutare a riportarci a casa: immaginare, desiderare, definirsi.

Immaginare: L’uomo deve tornare a raccontarsi anche per immagini, leggende, miti. Immaginare vuole dire
vedersi in modo nuovo, diverso dal consueto, in maniera più completa e complessa. Immaginarsi vuole dire
trascendere i limiti che la razionalità impone. Immaginarsi è già un raccontarsi e quindi una dimensione
relazionale. Immaginarsi è costruire ponti.
Jung affermava “Siamo stati talmente assorbiti dal nostro interesse per quel che pensiamo da dimenticare
completamente ciò che la psiche inconscia pensa di noi”. Quello che la psiche pensa di noi viene fuori
soprattutto nei sogni. Immaginare apre alla consapevolezza di sé, alla scoperta della ricchezza del proprio
mondo interiore.

Desiderare: Ciò che contraddistingue la nostra natura è quella di non avere una natura predefinita.
Non esiste un Senso della vita, esiste il senso che io do oggi a questo giorno, esiste il mio volere
esistere in un determinato modo. La nostra natura è indeterminata e si determina con il Desiderio.
Che cosa desidero? Che cosa voglio essere? Come voglio stare al mondo?
I grandi maestri della spiritualità affermano:
Buddha: qualunque cosa un monaco frequentemente pensi e consideri, quella diventerà
l’inclinazione della sua mente.
Gesù: La dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore.
Marco Aurelio: Ognuno vale tanto quanto le cose a cui si interessa.
Plotino: Ogni anima è, e diventa ciò che guarda.
Spinoza: Il desiderio è l’essenza dell’uomo.
Il desiderio, insomma, ci motiva e ci dirige. Abbiamo forse bisogno di uno scopo interiore perché
quelli esteriori sono esauriti o sono preconfezionati. Dobbiamo quindi lavorare sul sé interiore, e
credere nella profondità dell’animo umano. Etty Hillesum scriveva: “Tutto avviene secondo un
ritmo più profondo che si dovrebbe imparare ad ascoltare. È la cosa più importante che si può
imparare in questa vita”. Non ascoltare il ritmo più profondo e scordarci di desiderare quello che
ascoltiamo è il più grande tradimento verso noi stessi.

Definirsi: L’uomo deve avere la consapevolezza di esistere in un determinato modo. Deve
conoscere il suo modo particolare di esserci nel mondo. Sapere che si è proprio quell’uomo, con
tutta la complessità che ciò comporta. Definirsi significa perciò essere consapevoli della particolare
forma di esistenza che porto nel mondo. Non siamo tutti uguali; al contrario siamo tutti diversi ed
è proprio questa ricchezza che genera la curiosità dell’alterità che è il vero motore delle relazioni.
Definirsi vuole dire opporsi ad ogni forma di massificazione ed omologazione, costruire giorno
dopo giorno la propria identità e non il proprio profilo, ricercare e incarnare la propria autenticità.

Buon cammino!

Filippo Mondini 

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